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La Primavera Ferrari: 1956-1959 - Modelfoxbrianza.it
 
 
 
Siamo alla fine del 1956 e Juan Manuel Fangio, campione del mondo con la Lancia-Ferrari D50, lascia Maranello senza pochi risentimenti e accuse dirette verso Enzo Ferrari, reo secondo “El chueco” di averlo ripetutamente sabotato a favore di Collins, in quanto, sempre secondo Fangio, il mercato dell’auto inglese fa molta gola a Ferrari, mentre quello argentino è ancora chiuso alle importazioni. Manuel Fangio è ai ferri corti con Ferrari che lo reputa un buon pilota, ma ha anche una certa “invidia” verso quel pilota argentino dalla strana voce metallica. Lo reputa troppo sicuro di se, troppo furbo e scaltro nelle decisioni da prendere. E’ un geniale mercenario e sa sempre dove accasarsi nel modo migliore con la vettura vincente, frutto delle sue esperienze acquisite nella patria natia, durante le lunghe carreteras di migliaia di chilometri e nell’essere cresciuto nel mondo dei motori. Per dovere di cronaca va anche detto che Fangio era già conoscitore della Casa del Cavallino, avendo corso con vetture di Maranello con i colori blu e giallo dell’Equipo Argentino. Inoltre Ferrari non vede di buon occhio e questo penso sia uno dei motivi principali di questo amore-odio verso Fangio, che dopo ogni gara vinta, l’argentino fa credere alla stampa, quindi al mondo intero, che il merito della vittoria fosse solo sua e non della vettura. Forse più di Manuel Fangio fu il suo manager, Marcello Giambertone a rovinare i già delicati rapporti con Enzo Ferrari. Figuriamoci Ferrari che si trova di fronte ad un nuovo “caso Nuvolari”, fino al punto di fargli dire:” Manuel Fangio è rimasto per me un personaggio indecifrabile. La sua statura agonistica era invece indiscutibile. Possedeva una visione della corsa decisamente superiore e un equilibrio, una intelligenza agonistica, una sicurezza nella condotta di gara veramente singolari”, come per dire, il pilota era grande, l’uomo un pò meno.
 
Fangio, Castellotti, Hawthorn, De Portago e Collins
Fangio, Castellotti, Hawthorn, De Portago e Collins
 
 
Il 1956 per Ferrari è un anno duro, un anno che mette alla prova qualsiasi uomo posto davanti ad un’atrocità come la perdita di un figlio. Dino, il “figlio totale” di Ferrari, il figlio per cui Ferrari ha smesso di correre il 9 agosto 1931 per dargli una sicurezza nella futura vita, se ne va, in punta di piedi il 30 giugno 1956 a soli 24 anni, distrutto da quella malattia per cui Ferrari avrà negli anni a venire sempre un occhio di riguardo, donando centinaia di milioni per macchinari e ricerca: la distrofia muscolare. Gli resta solo Piero Lardi, poi Ferrari, avuto nel maggio del 1945 da Lina Lardi. Ferrari è distrutto, ma le sue macchine devono continuare a correre e la sua azienda deve continuare a produrre vetture che iniziano ad essere ricercate in tutto il mondo.
Mal digerita la dipartita dell’argentino, Ferrari come suo solito, pensa bene di dare i “gradi” ai giovani piloti che ha nella sua Scuderia. Eugenio Castellotti, Luigi Musso, Peter Collins, Alfonso de Portago, Mike Hawthorn, rientrato in Scuderia nel 1957 dopo averla lasciata nel 1955 e Wolfgang von Trips, si trovano a dimostrare il meglio di loro stessi davanti agli occhi severi di Ferrari. Il migliore sarà il caposquadra per l’anno 1957, il decennale dell’Azienda, un anno che come vedremo più avanti, segnerà le sorti di alcuni piloti della “Primavera Ferrari”.
 
 
Eugenio Castellotti (Lodi (I) 10 ottobre 1930 – Modena (I) 14 marzo 1957) prova una Ferrari 801, diretta derivata dalla Lancia-Ferrari D50. All'Aerautodromo è presente Jean Bhera con la Maserati. La lotta è subito accesa sul filo dei centesimi di secondo. Al secondo giro di prove, Eugenio passa dai box, percorre tutto il rettifilo ad elevata velocità. Arrivato alla "S" Stanguellini deve scalare le marce, ma qualcosa non funziona, ancora oggi non si sa se nel pilota o nella vettura. La Ferrari 801F1 tocca i cordoli, decolla, carambola e si va a fermare sulla tribunetta del Circolo della Biella, fortunatamente deserta in quel momento. Sono le 17.18 del 14 marzo 1957. Castellotti morirà sull'ambulanza mentre a sirene spiegate cerca di raggiungere l'Ospedale di Modena.

 
Eugenio Castellotti
Eugenio Castellotti
Due belle immagini di Eugenio Castellotti

La Ferrari 801 F1 di Castellotti dopo l'incidente
La Ferrari 801 F1 di Castellotti dopo l'incidente
 
 
E' stata la ricerca di un record combattuto fino all'ultimo decimo con Jean Behra quel 14 di marzo? Fu l'occhio osservatore di Enzo Ferrari che lo scrutava giro dopo giro? Fu la rivalità con Luigi Musso sullo status di futura prima guida o fu l'amore di Delia Scala che lo portarono ad una fine prematura? Si parla anche di un guasto meccanico all'impianto frenante, guasto che non fece rallentare la Tipo 801all'entrata della "S" Stanguellini, toccandone i cordoli e che portò la rossa Ferrari a fare salti e capriole fino alla tribunetta del Circolo della Biella, dova la vettura si fermò. Ma anche le corse da Maranello, Lodi, Milano per stare con Delia, ebbero il loro peso. Anche qui non si saprà mai. Aveva solo 27 anni. E' l'inizio di una lunga catena di incidenti che scuoterà l'opinione pubblica e lo stesso Ferrari, fino al punto di farlo pensare ad una chiusura con il mondo delle corse. L’incidente di Castellotti gettò nello scoramento più completo tutta la fabbrica, in quanto Eugenio era pilota amato e popolare. Era uno che correva per la gente sulle tribune e dalle tribune riceveva tutta la carica necessaria per dare il meglio di se stesso. Discendeva da famiglia benestante del lodigiano, amante dello sport in generale, amava molto anche le belle donne. Sandra Milo, Anna Maria Ferrero, Edy Campagnoli, sono solo alcuni nomi del suo “palmarès”, ma il suo cuore si fermò a Delia e con Delia aveva deciso di mettere su casa. Aveva un grande amico, un mentore di nome Alberto Ascari, che la sorte volle finisse i suoi giorni di vita terrena all’Autodromo di Monza, proprio sulla Ferrari 750 Monza dello stesso Castellotti, in un giorno di normali collaudi. Era il 26 maggio del 1955.
 
 
 
Enzo Ferrari prepara la XXIV Mille Miglia, ancora scosso dall’incidente di Castellotti. I giornali si chiedono perché, come mai una morte così assurda? Enzo tace, lascia parlare gli altri, chiuso nel suo immenso dolore per la perdita di un suo pilota. Il 12 maggio la Ferrari schiera i seguenti equipaggi: Taruffi / Von Trips / De Portago-Nelson / Collins-Klemantaski / Gendebien-Washer. La competizione stradale ha rilievo internazionale e le case automobilistiche ci tengono a fare bella figura, quindi sotto con schieramenti di uomini, mezzi, risorse. Chi la vincerà potrà fregiarsi quasi come aver vinto un campionato del mondo per vetture sport, Ferrari conosce bene le regole e la risonanza mondiale dell’evento. Il giorno della gara attenderà le sue rosse vetture al rifornimento di Bologna, come sua usanza. In contemporanea impartisce gli ordini di Scuderia che recitano: “vinca Taruffi”, congelando di fatto tutte le posizioni degli altri ferraristi. E così fu. Si narra che durante la sosta per rifornimento a Bologna di Alfonso De Portago, (al secolo Don Alfonso Antonio Vicente Eduardo Angel Blas Francisco de Borja Cabeza De Vaca y Leighton Carvajal y Ayre, XVII marchese De Portago, XII Conte de la Mejorada – (Londra (GB) 11 ottobre 1938 – Guidizzolo (I) 12 maggio 1957), un giornalista sportivo fu visto parlare con il pilota e il suo secondo. Cosa si siano detti esattamente nessuno lo sa, ma pare che il giornalista esortasse “Fon” a spingere sull’accelleratore in quanto le due Ferrari di testa, avrebbero accusato noie meccaniche e dal suo terzo posto in classifica generale, non sarebbe stato difficile agguantarli e superarli. La 335 S di Portago-Nelson divora i chilometri verso Brescia ad una velocità pazzesca, passando attraverso centri abitati e lunghi rettifili fiancheggiati da alberi.

La partenza di Alfonso De Portago alla XXIV Mille Miglia


La vettura di De Portago-Nelson dopo l'incidente di Guidizzolo

La partenza di Alfonso De Portago alla XXIV Mille Miglia
La vettura di De Portago-Nelson dopo l'incidente di Guidizzolo


Alfondo De Portago spinge la Lancia-Ferrari D50
Alfondo De Portago spinge la Lancia-Ferrari D50
 
 
All’altezza del paese di Marmirolo la vettura di De Portago “pizzica” con gli pneumatici gli occhi di gatto posti in mezzaria della strada, ma qualcuno dopo il fatto segnala che la Ferrari n°531 viaggiava con un pezzo di lamiera penzolante, staccatasi dal fondo della vettura, sembra a seguito di un urto contro un muretto o un angolo cantoniero. La Ferrari raggiunge Cavriana a pochi chilometri da Guidizzolo e si immette in un lunghissimo rettifilo che la porterà a Brescia, forse vincitrice. Fon affonda il piede sempre più sull’accelleratore, gli pneumatici scaricano a terra potenze inaudite, poi uno scoppio, la vettura decolla, trancia alcuni pali e alberi, ricade nel fossato di sinistra e poi, spinta dall’immane forza inerziale, risale il fossato sinistro, attraversa la strada e ricade nel fossato di destra, con il muso rivolto verso Bologna. Un sinistro silenzio dura per qualche secondo, poi urla, disperazione, sangue, morte, sconvolgono la gioiosa festa del passare delle vetture. De Portago, Edmund Nelson e 9 spettatori tra bambini e adulti, non ci sono più. La notizia venne appresa da Ferrari tramite i bollettini radio che man mano spiegavano i fatti sempre con maggiore crudezza e precisione. Sono passati appena due mesi dalla morte di Castellotti e per Ferrari si ripresenta un altro calvario a cui è difficile porre parole. L’opinione pubblica è a briglie sciolte. Da più parti si levano accuse alle corse in strada e a Ferrari stesso, che dovrà sopportare questa infamia e questo peso fino al luglio 1961, quando il Tribunale di competenza a seguito delle perizie svolte, assolve Enzo Ferrari e la Casa belga Englebert dall’accusa di omicidio colposo. Il marchese spagnolo non c’è più, come non c’è più il suo giubbotto di pelle nera, sua vera carta d’identità e la sua borsa da viaggio con l’essenziale per le gare automobilistiche.
Ferrari vacilla. Gli pensa anche la morte di Piero Carini deceduto il 30 maggio 1957 a St. Etienne in Francia e dell’Ing.Andrea Fraschetti, morto all’Aerautodromo di Modena mentre collauda una Dino di Formula Due il 29 agosto 1957. Pensa di smettere con le corse, anche a seguito dell’articolo apparso sulla Stampa di Torino a firma Ferruccio Barnabò che gridava: “Basta col sangue!”. Ma la passione e il pensiero per la sua fabbrica, lo fa continuare, a fatica, ma continua. Nemmeno il titolo vinto di Campione del Mondo Costruttori Sport lo consolerà e tantomeno riceverà consolazione dalla conferenza indetta per celebrare i dieci anni della sua Fabbrica, disertata da molte personalità, con i soliti e cortesi “precedenti impegni”.
 
 
 
Juan Manuel Fangio e Luigi Musso (Roma 28 luglio 1924 – Reims (F) 6 luglio 1958) se la scherzano allegramente prima del Gran Premio di Francia in programma domenica 6 luglio, dopo che il 5 luglio, si era disputata la 12 Ore di Reims, sempre sullo stesso circuito, vinta dalla coppia Olivier Gendebien e Paul Frère su Ferrari 250 GT. La stagione 1958 era cominciata con i giusti auspici per le rosse vetture di Maranello che vinsero nelle diverse categoria F1 e Sport in Argentina, a Sebring, nella Targa Florio, nel GP di Siracusa, a Silverstone e alla 24 ore di Le Mans, gare che coroneranno anche per il 1958 il titolo di Campione del Mondo Costruttori Sport, oltre al Titolo Piloti vinto con una sola gara e diversi piazzamenti dall’inglese Mike Hawthorn su Ferrari 246 F1. Il “romanino” deve vincere a tutti i costi il GP, anche perché la posta in palio è alta (10 milioni di Franchi) al vincitore, oltre al premio di ingaggio e alle classiche 250 bottiglie di vino offerte dalla Regione francese dell’Epernay a chi avesse conquistato la pole position, il record sul giro, al pilota vincitore e alla vettura vincitrice, quindi ascolta con attenzione i consigli del 5 volte Campione del Mondo su come affrontare l’insidiosa curva di Gueux o “Calvaire”, come tenere giù il piede per tutta la curva e mai staccarlo dall’accelleratore.
 
 

Luigi Musso soprannominato il "romanino"


Luigi Musso soprannominato il "romanino"

Luigi Musso soprannominato il "romanino"

La Dino 246 F1 di Luigi Musso finita nel campo di grano
La Dino 246 F1 di Luigi Musso finita nel campo di grano
 
 
Fangio in questo era un maestro. “Ricordati che se le spighe si piegano, occorre alleggerire sul gas” dice Fangio a Musso. Il problema è che quella corsa la volevano vincere in molti, primi fra tutti Musso seguito dal compagno Hawthorn, entrambi canditati alla conquista del titolo mondiale. Lo stile pulito di guida di Musso gli dava vantaggio, ma la spinta maggiore per Luigi fu la precedente perdita al gioco sommata ai problemi con l’autosalone di Roma e il conseguente recupero che Musso doveva fare per fare fronte al famoso telegramma in cui gli si diceva di vincere per recuperare denaro. Luigi Musso si presenta a Reims da vincente, avendo vinto l’anno precedente sullo stesso circuito una gara non titolata e quindi profondo conoscitore del tracciato e con la “riserva” dei consigli dati da Fangio sull’affrontare la “curva maledetta”. Dopo la partenza del gran premio, Musso e Hawthorn si trovarono nelle prime posizioni con due Ferrari 246 F1. Luigi sapeva come affrontare la “falce” del curvone del Calvaire, così ribattezzato in quanto all’ingresso della curva si trovava una capannina con un’immagine sacra. La stessa audacia e voglia di vincere pervadeva i due piloti, al punto che entrarono nella Gueux assieme, acceleratore a tavoletta, vietato “telegrafare”, pena l’uscita di pista. Musso seguiva Hawthorn a piena velocità e presumibilmente un errore di traiettoria lo obbligò ad alleggerire la pressione sull’accelleratore, quanto basta per non poter più raddrizzare la vettura. Nel libro “Champion Year” di Hawthorn, si può leggere un passaggio molto interessante secondo il suo punto di vista. Scrive Hawthorn: “Quando stavo uscendo dal curvone, guardai nello specchietto per vedere se avessi guadagnato qualcosa su Musso; con orrore lo vidi di traverso in mezzo alla pista. Poi scomparve dietro di me, uscendo dal mio campo visivo. Si sollevò una gran nuvola di polvere, e questo fu tutto quello che vidi”. Mike Hawthorn passò indenne la curva, per Luigi Musso ci fu solo un campo di spighe ad attenderlo. 
 
Dopo questo tragico gran premio, dove subì anche l’onta dell’evitato doppiaggio in pista da parte di Hawthorn, che non se la sentì di doppiare il “Maestro”, Fangio smise di correre e si ritirò dalle competizioni, capendo che ormai la sua carriera era giunta al termine.
 
Ferrari aveva un occhio di riguardo verso Musso in quanto italiano e così descrive nel suo “Le mie gioie terribili” l’incidente di Reims:“….così arrivarono insieme alla curva. Hawthorn davanti, Musso ad una ventina di metri. Io sono convinto che la foga di gara gli fece tenere il piede giù a fondo. E’ difficile sapere con esattezza ciò che accadde. I pochi testimoni, ufficiali di rara, fecero un racconto in cui lo spavento provato prevalse sulla fedeltà della cronaca. E con Musso finì il bello stile italiano.” Con l’inglese Ferrari ostentava un rapporto basato solo sulla raccomandazione avuta da Hawthorn dall’importatore Ferrari per il Regno Unito, ma anche sulla fetta di mercato che l’Inghilterra avrebbe potuto offrigli. Ferrari era abilissimo nell’imprimere nella mente dei suoi piloti fin dall’inizio del campionato una regola ben precisa: chiedeva il meglio e i suoi piloti lo davano senza problemi, in previsione, come già detto sopra, del risultato migliore in classifica nelle fasi finali del campionato e qui Ferrari sarebbe intervenuto per “aiutare” chi stava davanti a tutti per vincere il Campionato Conduttori. Si può ben capire lo stato psicologico di Musso, pressato dal gioco da una parte e dalla voglia di primeggiare dall’altra, voglia che più di una volta lo vide contrapposto allo stesso Castellotti per il Campionato Italiano. Adesso l’attacco della stampa a Ferrari è totale ed anche l’Osservatore Romano, dopo Civiltà Cattolica, che titolerà dopo la strage di Guidizziolo: “Una inutile strage”, si scaglia contro il costruttore modenese appellandolo “Saturno ammodernato continua a divorare i propri figli”. Un coro di “basta” si leva da più parti. Basta con le corse e con le inutili morti. Ferrari si trova ancora ad un bivio: continuare o lasciare perdere tutto, mollare le corse, la sua vita.
 
 
 
 
Sono passati solo venti giorni dalla terribile fine di Luigi Musso ed ecco che Ferrari è costretto ad incassare un altro tremendo colpo: la morte di Peter Collins (Kidderminster (GB) 6 novembre 1931 – Bonn (D) 3 agosto 1958), l’amico di suo figlio Dino ed eccellente collaudatore. Nel mondo delle corse pochi piloti hanno fatto quello che ha fatto Collins al Gran Premio d’Italia 1956: cedere la propria vettura al concorrente diretto al titolo mondiale e compagno di scuderia Manuel Fangio. Eppure Peter Collins lo fece, senza problemi, magari pensandoci un secondo, ma lo fece, regalando agli spettatori del gran premio un gesto irripetibile di umanità e di dedizione alla squadra che perfino Luigi Musso rifiutò, benché richiamato più volte ai box, anche se lo stesso Musso aveva già ceduto la sua L.F.D50 in occasione del Gran Premio di Argentina, gran premio di casa per Fangio, permettendo all’argentino di vincere poi la gara. Grazie anche a quel gesto, Juan Manuel Fangio vinse il Campionato del Mondo Costruttori del 1956. Collins disse a fine gara:”Ho solo 25 anni, avrò sicuramente altre ciance per vincere il titolo”. Il suo esordio in Formula uno è datato 22 gennaio 1956 nel Gran Premio di Argentina e nel 1957 è già prima guida in Ferrari, dopo un anno di “gregario” agli ordini del capo squadra Fangio.

Peter Collins


Peter Collins con il trofeo del vincitore

Peter Collins
Peter Collins con il trofeo del vincitore

Peter Collins con Enzo Ferrari alla partenza della Mille Miglia
Peter Collins con Enzo Ferrari alla partenza della Mille Miglia
 
 
Ma il 1957 si rivela oltre ad un anno di assurde disgrazie, anche come un anno in cui le rosse vetture di Maranello (Tipo 801 F1) non brillano e devono subire la superiorità delle altre vetture. Dopo un inizio 1958 altalenante per motivi tecnici della sua vettura, Collins vince il Gran Premio d’Inghilterra e il suo morale torna alle stelle. Si presenta al Neurburgring carico di voglia di vincere, di far vedere a Ferrari che i gradi che gli ha dato, sono ben meritati. Ottiene il 4° tempo in prova e al via dei 15 giri, la battaglia è con il connazionale Tony Brooks. All’undicesimo giro, Peter sta recuperando con la sua Ferrari 246 F1, ma arriva alla Curva Pflanzgarten, l’affronta a piena velocità, sbanda, esce di pista e si schianta contro un albero. Si racconta che prima di morire, Collins disse:” Come Musso, come Musso”. L’unica vettura che adesso corre verso Bonn è un’ambulanza, ma Collins non ce la farà. Aveva solo 27 anni. Ferrari diede la colpa dell'incidente a quel sì concesso dall'inglese, neppure un anno prima, a Louise Cordier King. Eppure, l'unione con l'attrice americana era piaciuta a tanti: lo scapolo impenitente aveva finalmente messo la testa a posto.
 
 
Per Ferrari un altro grosso colpo. La sua caparbietà, la sua forza interna, non furono sufficienti per passare quei terribili momenti. La stampa, la TV, si scagliarono tutti contro l’Uomo di Maranello, senza tralasciare il fatto che sopra la testa di Ferrari pendeva ancora la spada di Damocle per il processo dei fatti di Guidizzolo, risoltosi poi nel 1961 con un nulla a procedere. Da una parte la pressione dei media, dall’altra il pensiero per la sua fabbrica e le sue auto. Pulsioni interne altalenanti gli spingevano il morale sempre più in basso; il dolore provato da Ferrari non era di facciata, era tremendamente vero. Non se la prese nemmeno con la sfortuna in quanto era solito dire: “ la sfortuna in quanto tale non esiste. Le avversità sono piuttosto il risultato di quanto non abbiamo saputo o voluto pianificare”. Il ritiro dalle competizioni sembrava vicino e tutto spingeva in quel senso, sembrava che l’atto di ritirasi da tutto al momento era il più sensato. Anche se poco convinto religiosamente, gli pesava quanto scritto dall’Osservatore Romano. Dopo l’assoluzione del 1961, pian piano la tensione verso di lui si affievolì. Giornali e TV gli diedero pace e ricominciarono ad esaltarne le gesta sportive e Ferrari si risollevò, forte anche del sondaggio che il Guerin Sportivo fece su di lui e sulle sue macchine.

Enzo Ferrari sempre più solo
Enzo Ferrari sempre più solo
 
 

Enzo Ferrari nel suo ufficio tra i suoi piloti, si riconoscono Castellotti, Musso, Fangio, Collins, de portago e Phil Hill

Enzo Ferrari nel suo ufficio tra i suoi piloti, si riconoscono Castellotti, Musso, Fangio, Collins, de portago e Phil Hill
 
 
“Enzo Ferrari si deve ritirare dalle competizioni, si o no?”, questo quanto titolava il sondaggio stesso. Il plebiscito fu ovvio e Ferrari ne uscì più carico moralmente da quegli orribili anni di disgrazie. Anche gli ambienti religiosi incominciarono a dare forza a Ferrari. Il settimanale cattolico Orizzonti, a firma del padre gesuita Giacomo Perico, uscì con questo articolo: “Sappiamo benissimo che può insorgere a un certo punto della competizione, o nel pilota o nel mezzo meccanico o nella pista, l’imprevisto che non poteva essere conosciuto prima e contro il quale perciò era stato impossibile difendersi. In questi casi, l’esito sfortunato della prova ai danni della vita o dell’integrità dell’uomo non è moralmente imputabile a nessuno se ciascuno ha dato la sua parte di sicurezza e di protezione. L’imprevisto è l’inevitabile controparte del progresso. E’ la sorte dell’uomo non avendo la scienza del futuro e la perfetta conoscenza delle leggi che si possono improvvisamente inserire nel fenomeno che l’esperto sta provando, egli si premunisce fino al limite delle sue possibili previsioni, poi rischia e qualche volta al di là dei confini della sua conoscenza c’è in agguato la forza sconosciuta che interviene disordinando tutti i suoi piani e provocando il disastro. O si rinuncia a progredire o ci si rassegna ad accettare l’incontro con il fattore sconosciuto”. L’articolo di padre Perico si concluse con questa liberatoria: “Contro questi morti, la morale non pronuncia alcuna condanna, anzi, ad essi la morale riconosce gran parte della sicurezza che godono oggi coloro che sono rimasti ed è motivo per cui anch’essa serba a loro una profonda riconoscenza”. Per Enzo Ferrari mai parole migliori potevano essere indirizzategli, liberandolo dai sensi di colpa accumulati nel terribile biennio 1957-1958 e le sue gioie incominciarono ad essere un po’ meno terribili. Nel 1958 l’annuario edito dalla Ferrari, evidenzia la risposta di Enzo Ferrari alle accuse rivoltegli nel biennio precedente e la conferenza stampa di fine anno, non si dissocia da quanto scritto nell’annuario, rispondendo punto su punto ai giornalisti intervenuti. Dopo questo Ferrari chiuderà con i piloti italiani. Arrivò anche la tanto attesa sentenza sui fatti di Guidizzolo del 26 luglio 1961:
L’accusa è manifestatamente infondata, e si basa esclusivamente sulle affermazioni dei primi periti assunti dal P.M.: ma già alcune considerazioni logiche, ovviamente scaturenti dalle contraddizioni e dalle imprecisioni dei periti medesimi, avevano immediatamente inficiato i nuovi assunti. Talché dopo l’escussione minuziosa ed esauriente di tutte le persone interessate al caso – dal costruttore Ferrari all’industriale Englebert, dai tecnici Lèdent e Boasso al pilota Taruffi e ai direttori della competizione, dai funzionari preposti alla motorizzazione civile a tutti coloro, tecnici e assistenti, che avevano controllato la messa a punto delle vetture e ne avevano seguito le prestazioni durante tutto il percorso – questo giudice aveva ricavato il netto e preciso convincimento che nulla potesse essere addebitato, a titolo di colpa, sia al Ferrari che all’Englebert, forti di un’ultradecennale esperienza in materia; consapevoli della responsabilità nell’affrontare, studiare, costruire ed impiegare mezzi meccanici di notevole potenza motrice; perfettamente coscienti di dover intraprendere – come fecero – una stretta e continua collaborazione per la miglior riuscita dell’impresa, e per la costruzione e l’approntamento di mezzi i più perfetti possibili in rapporto alla capacità umana. In particolare il costruttore Enzo Ferrari è uomo dalla forte e incisiva personalità, dotato di capacità intellettive e morali indubbiamente superiori alla media, che attraverso immani sacrifici e sospinto dalla sola passione dell’automobilismo, ha saputo creare dal nulla, con le sue forze una industria stupenda e perfetta come un laboratorio di orologeria, conquistando stima e la ammirazione universali, costruendo vetture, sia per competizione che per turismo, che tutto il mondo ci invidia, trionfando in modo indiscusso sui circuiti e le piste di ogni continente. Questi sono elementi obiettivi di giudizio, inconfutabili: parimenti l’Englebert è titolare, in Belgio, di una ditta per costruzione di coperture rinomata e apprezzata universalmente. I due industriali, pertanto, non potevano non intraprendere , per il buon nome dei rispettivi prodotti, che la più stretta, rigorosa ed efficace delle collaborazioni, onde scendere in gara con autovetture perfezionate al massimo di idoneità e conseguire le più ambite vittorie: Come infatti accaduto. Orbene, tutti gli assunti difensivi e tutte le spiegazioni logiche e tecniche fornite dal Ferrari e dall’Englebert, nonché dai loro collaboratori e dipendenti, hanno trovato piena conferma nella esauriente e motivatissima relazione dei periti Capocaccia, casci e Funaioli, tecnici e docenti di indiscussa fama e capacità specifiche, e in particolar modo non legati da alcun diretto interesse con ll’imputato o con la ditta belga. Ne consegue ex.art. 378 e 152 S.P.P. che il Ferrari deve essere immediatamente mandato assolto dal reato ascrittogli, in conformità alle richieste del PM, per non averlo commesso. Ex art. 622 e seguenti. Vanno restituiti al Ferrari tutti i reperti caduti in giudiziale sequestro”.
 
 
Anche John Michael Hawthorn, Mike per gli amici (Mexborough (GB) 10 aprile 1929 – Guilford (GB) 22 gennaio 1959), quinto pilota della “Primavera Ferrari” se ne va, non in corsa, non con una rossa Ferrari, ma con la sua Jaguar 3.4 (la chiamavano Merc-Heater – mangia Mercedes), mentre sfida l’amico Rob Walker (discendente dai noti produttori di Whisky), a bordo di una bianca Mercedes 300 SL, in una pazza gara nelle campagne inglesi in quella città che trent’anni dopo diverrà un’antenna tecnologica della stessa Ferrari, Guilford. Il destino lo ha salvato dalle piste e lo ha fatto morire da Campione del Mondo fuori dalle piste. La verde Jaguar targata VDU881 non ha retto velocità, pioggia e quel pizzico di pazzia che aleggiava in Hawthorn, ed è volata fuori strada, contro un albero.
Dopo la vittoria nel Campionato del Mondo 1958, aveva deciso di ritirasi, scosso anche dalla prematura morte dell’amico fraterno Peter Collins e lo aveva detto anche a Ferrari. Nei suoi futuri programmi c’era quello di ingrandire il suo “TT Garage” concessionario Jaguar e smetterla con i riflettori della scena a cui un pilota vincente doveva sottostare. Lo chiamavano il pilota con il farfallino o “Bad Boy”, ma a Maranello lo chiamavano “Piombon” per il suo piede pesante.

John Michael Hawthorn


John Michael Hawthorn, a maranello lo chiamavano "Piombon" per il suo piede "pesante"

John Michael Hawthorn, a Maranello lo chiamavano "Piombon" per il suo piede "pesante"

Guilford, 22 gennaio 1959. Anche l'ultimo "cavaliere" della primavera Ferrari se ne va
Guilford, 22 gennaio 1959. Anche l'ultimo "cavaliere" della primavera Ferrari se ne va
 
 
Mike vinse il Campionato 1958 con una sola gara al suo attivo, il Gran Premio di Francia a Reims, dove Hawthorn conquistò l’hat trick, pole position, giro veloce e vittoria proprio nel GP fatale a Luigi Musso, oltre a diversi piazzamenti sul podio. Howthorn fu il primo pilota inglese a vincere un titolo mondiale e lo conquistò proprio nei cinque anni passati in Ferrari, dal 1953 al 1955 e poi dal 1957 al 1958. Nella sua carriera vinse la 24 Ore di Le Mans del 1955 in coppia con Ivor Bueb, passata alla storia per i tragici fatti accaduti durante la gara, innescati involontariamente dallo stesso Hawthorn nel rientro ai box, che va a tagliare la pista mentre sopraggiunge la Healey di Lance Macklin, innescando così, involontariamente, un groviglio di vetture che costerà la vita a Pierre Levegh su Mercedes oltre a più di ottanta spettatori. Fu accusato diverse volte di avere innescato incidenti in gara, compreso quello della 1000 km del Neurburgring del 1956, nel quale “invita” ad uscire di pista proprio Luigi Musso. Anche in questo caso è Ferrari che interviene e da un’altra possibilità a Hawthorn, inserendolo in squadra nel 1957. Con questa manovra Enzo Ferrari si assicura una formazione che non farà rimpiangere certo il grande Manuel Fangio. Ma le polemiche continuano e i due inglesi, Hawthorn e Collins vengono più volte accusati di fare gioco di squadra per dividersi poi i premi ingaggio e gara. La storia ci consegna un fatto che fa meditare. Sia a Reims come al Neurburgring, davanti alle vetture di Musso e Collins, c’era la Ferrari di Hawthorn. Pura casualità? Con la morte di Mike Hawthorn finisce l’epoca della “Primavera Ferrari”, cinque giovani pieni di spirito e voglia di vincere oltre che di vivere. Cavalieri del rischio, amanti della vita e ancor di più della bella vita che il mondo delle corse offriva. Se ne sono andati tutti, lasciando il solo Ferrari a sopravvivergli con quel carico di “gioie terribili” che lo hanno accompagnato per buona parte della sua esistenza. Scrivendo questa pagina, ho voluto stare lontano dai dati, dai risultati e dalle corse il più possibile, proprio per narrare le gesta di vita finali di questi cinque giovani, speranze di un domani dell’automobilismo anni ’50, che un domani non hanno avuto, ma che entrano di diritto nella storia della Casa di Maranello e mai saranno scordati e di un Costruttore che ha amato l’auto in maniera univoca e che ha pagato un prezzo troppo alto per un uomo, anche se dallo sport dell’auto l'Uomo di Maranello ha avuto tante gioie, “terribili gioie”. MfB
L'autore su segnalazione all'indirizzo infomodelfoxbrianza@gmail.com, sarà ben lieto di segnalare la provenienza del materiale iconografico rappresentato in questa pagina.

La pagina rappresenta uno studio condotto dall'autore sulla "Primavera Ferrari" e potrà, a seguito di nuovi accertamenti, subire modifiche atte ad inquadrare al meglio la verità storica dell'evento.


Bibliografia


Pagina pubblicata il 17 novembre 2010


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